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Intervista a Pierre Laszlo, maggio 2001

a cura di Cristiana Spinedi

Di origine ungherese, cresciuto fra l’Algeria e la Francia, Pierre Laszlo è stato professore di Chimica all’Università di Liegi, in Belgio, dal 1979 al 1999 e alla Scuola Politecnica di Parigi dal 1986 al 1999. È stato inoltre professore invitato alla Cornell University di New York, a Chicago, nel Kansas, nella California, a Berkeley, nel Colorado, nel Connecticut, ad Amburgo, a Losanna e a Tolosa. Nel 1982 è stato anche professore di Letteratura francese all’Università John-Hopkins di Baltimora. Fra le sue numerose pubblicazioni citiamo La découverte scientifique (1999) e Le savoir des plantes (1999). Fra i suoi riconoscimenti ricordiamo il Premio dell’Accademia delle Scienze (1981) e il Premio Maurice Pérouse della Fondation de France (1999). Attualmente, Pierre Laszlo divide la sua vita vive fra la California e il Sud della Francia.

 

 

Professor Laszlo, la sua passione per la letteratura è nota; lei non è solo uomo di scienza.
Io credo che ognuno di noi debba avere una personalità equilibrata in diversi ambiti. Nel mio caso, semplicemente, per una ragione che non ho mai perfettamente compreso, giunto all’età di quarant’anni, mi sono svegliato un mattino con una voce interiore che mi diceva “Smettila di fare l’imbecille; hai un temperamento letterario, è davvero sciocco continuare a censurarlo, a non permettergli di esprimersi”. Ho quindi iniziato a pubblicare e, ben presto, a beneficiare della tolleranza e dell’ospitalità dei letterati nei confronti di qualsiasi voce, indipendentemente dalla sua provenienza. È estremamente gratificante. Sfortunatamente posso dedicarmi alla passione letteraria solo di tanto in tanto, ma si tratta comunque di momenti che mi danno molte soddisfazioni.

Torniamo all’uomo di scienza. Parlandomi di lei, Albert Jacquard, che l’ha invitata all’Accademia di Mendrisio, mi diceva di comprendere la chimica solo quando è lei a spiegarla. Qual è il segreto del suo successo?
Non lo so! Io non credo davvero di avere segreti, ma è vero che vi è un problema nell’insegnamento della chimica. Mi capita molto spesso di incontrare amici che mi dicono di non avere mai capito nulla di chimica. La mia “missione”, per così dire, è un po’ quella di spiegare che la chimica è una disciplina centrale nei confronti delle altre discipline scientifiche, ma anche ad esempio nei confronti dell’economia (non vi è solo la scienza chimica, vi è anche l’industria chimica). Io credo che il mio ruolo sia quello di mostrare quanto non solo la chimica, ma la scienza tutta, sia legata alla nostra cultura. Così, ad esempio, ho spiegato ai miei studenti quanto la collaborazione fra i chimici e i pittori, durante il diciannovesimo secolo, sia stata vitale nella definizione di nuovi pigmenti e nuovi colori. I pittori impressionisti, in particolare, oggi sarebbero inconcepibili senza tutti questi nuovi pigmenti scoperti dai chimici del diciannovesimo secolo e fabbricati per loro.

All’Accademia di Mendrisio, lei ha svolto una conferenza dal titolo “la scienza in gioco”. Quanto spazio occupa, il gioco, nella sua professione?
Uno spazio enorme! L’atto primordiale del chimico è infatti quello di riunire dei prodotti, metterli in un recipiente e seguire l’evoluzione di ciò che si è combinato in modo del tutto ludico; come un ragazzino che mescola alcuni colori dentro ad una latta e poi guarda il risultato di questo rimescolamento con uno spirito di curiosità, con uno spirito di stupore di fronte alle trasformazioni della materia. Una delle cose che mi preoccupa nel comportamento dei miei colleghi chimici è che, spesso, non hanno la curiosità di seguire nei dettagli le trasformazioni: ciò che interessa loro è preparare una certa sostanza, senza preoccuparsi delle diverse vesti che assume nel corso del tempo, durante la sua elaborazione. Ogni volta che sono testimone di una tale mancanza di curiosità trovo che ciò sia contraddittorio con il nostro statuto di intellettuali e di scientifici. Personalmente, mi piace comprendere come accadono le cose.

Si parla sovente della violenza nelle scuole. Secondo lei esiste un modo per rendere l’insegnamento scolastico più ludico, e, quindi, più amabile?
Francamente, non credo che la violenza giovanile all’interno delle scuole sia un risultato della scuola. Credo invece che si tratti di un riflesso della società, e che la scuola sia un microcosmo. La violenza all’interno della scuola non verrà certo soppressa migliorando i metodi pedagogici e la formazione degli insegnanti. È chiaro che tali problemi sociali dovrebbero essere confrontati alla scuola fin dall’inizio, e che se vi è qualche manifestazione di violenza è perché i ragazzi non si trovano bene dentro la loro stessa pelle. E questo perché, nelle loro famiglie, vi sono problemi – io credo – di disinteresse e di conflitti generazionali. Uno dei ruoli della scuola è senza dubbio quello di formare adulti responsabili. In qualità di docente sono intellettualmente scandalizzato da questi atti di violenza, ogni volta che li apprendo dai media, perché non si tratta di cose con le quali, fino ad ora, ho potuto confrontarmi direttamente. Ho molta ammirazione per i miei colleghi che insegnano nelle scuole elementari, oppure nei collegi delle province difficili, che devono risolvere tali problemi. Credo, infine, che il problema della violenza a scuola sia confrontabile con quello della droga. Si tratta di un problema di esclusi dalla società, è un problema legato alla miseria, alla ripartizione disuguale delle ricchezze fra le diverse classi sociali. Insomma, non è un problema proprio della scuola, anche se si manifesta dentro la scuola. Io, poi, credo che sia del tutto aberrante confinare questo genere di problema in alcuni quartieri e trovare, in seguito, soluzioni di tipo poliziesco. Insomma, prima di essere scolastico, quello di cui stiamo parlando è anzitutto un problema politico.

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